La lunga strada verso la ripresa

L’economia globale si trova a fronteggiare una nuova crisi. In questo scenario il settore automotive, ed in particolare la filiera dell’aftermarket indipendente, deve fare i conti con una produzione in forte calo e con limiti strutturali dell’economia italiana che rischiano di ritardarne la ripartenza con pesanti ricadute sul piano occupazionale. Di questa situazione e di come affrontare una nuova “tempesta” in arrivo, ne abbiamo parlato con Silvano Guelfi, responsabile scientifico del centro di ricerca Automotive independent aftermarket del Politecnico di Torino

Professore, qual è lo stato di salute del settore dell’aftermarket automotive dopo i primi mesi del 2020?

I primi sei mesi si dividono in due spezzoni. Fino a fine febbraio si era evidenziata una lieve ripresa rispetto al 2019. Invece il secondo spezzone è quello dove è iniziato il lockdown con mesi come marzo e aprile in cui si è registrato un meno 50%, mentre abbiamo avuto un miglioramento verso la fine del semestre”

Allargando lo sguardo all’intero sistema economico, gli indicatori riportano tutti il segno meno. Quanto ha inciso la pandemia da Covid su questa situazione?

“Il Covid non è che abbia fatto precipitare un’economia sana, ha semplicemente messo a nudo quelli che erano dei limiti strutturali di un’economia insana da almeno dieci anni. L’Italia è in una fase di torpore economico da lungo tempo. L’impatto che ha avuto il Covid comporterà una flessione su base annua del prodotto interno lordo, stando alle stime della Banca d’Italia, di circa il 9 o il 10 per cento. Parliamo comunque di una situazione non drastica. Se invece consideriamo uno scenario più severo, in cui si verifica una ripresa della diffusione del Covid con un probabile secondo lockdown, i numeri sono più drammatici arrivando a una caduta del Pil tra il meno 15 o il meno 20 per cento”

In questo secondo scenario l’impatto sull’occupazione sarebbe drammatico

“Un Pil al meno 15 percento ha sicuramente un impatto pesante e oggi è già presente sui livelli occupazionali. Allo stato attuale la situazione è un po’ attenuata da una serie di misure governative che però non possono essere strutturali e quindi ci sarà un momento in cui, se non ci fosse una ripresa netta, il rischio che si vada verso ordini di occupazione molto più bassi non sarebbe da escludere. Parlare di un milione di posti di lavoro in meno non è insensato”.

Ci sono state aziende che durante il lockdown hanno interrotto la produzione, oltre che per l’emergenza sanitaria, anche perché molti dei componenti necessari a realizzare i loro prodotti provenivano da paesi asiatici. Quanto il settore automotive è dipendente da fornitori spesso localizzati a migliaia di chilometri di distanza? 

“Il sistema automotive è dipendente in genere dai paesi asiatici per varie tipologie di gamma e lo è sia per quanto riguarda la ricambistica entry level ma anche per pezzi di ricambi che entry level non lo sono più. Anche molte aziende blasonate fanno produrre i loro pezzi di ricambio e la componentistica ai paesi asiatici. Questa situazione ci ha condizionati anche se in un modo un po’ sfasato in quanto la Cina ha dovuto fronteggiare una situazione emergenziale prima ma ne è anche uscita prima, al di là di ritorni di focolai. Questo deve far riflettere sul significato profondo da un lato della globalizzazione e dall’altro della delocalizzazione. È evidente che alcune imprese italiane che avevano delocalizzato meno hanno sofferto, in questa fase, meno di quelle che hanno pesantemente delocalizzato in sede produttiva. Queste ultime hanno avuto degli scompensi della supply chain. Questi sono fenomeni che fanno ripensare a quello che è il modello di sviluppo in senso più ampio”.

C’è chi propone come correttivo a questo problema la creazione di magazzini dove avere delle riserve e chi invece pensa vada rivisto l’intero sistema di produzione. Qual è, secondo lei, la strada da percorrere?

“C’è da riflettere a lungo se debba essere più una questione legata a delle riserve e quindi a dei magazzini che permettano di attutire dei momenti di tensione o di mancanza di fornitura piuttosto che rivedere il significato stesso della produzione. Nel senso che probabilmente sotto diversi punti di vista, delle competenze, dell’occupazione e della resistenza a questi mancamenti di fornitura, ha senso ripensare a dove produrre. Perché essere privi di una filiera produttiva ci espone al rischio di non essere più in grado di fare niente. Questo è un tema che travalica la tensione da Covid attuale ma che si inserisce in un discorso più ampio e che ci spinge a ragionare sul fatto che se si delocalizza e si porta la ricchezza a essere prodotta in altri luoghi e noi diventiamo solo consumatori, prima o poi si creano delle tensioni di sistema. Forse il Covid ci spinge a fare delle considerazioni un po’ diverse sulla riorganizzazione del rapporto tra produzione e consumo. Perché altrimenti il sistema potrebbe di fronte a futuri passaggi pandemici, entrare in tensione”.

A cosa devono stare attente le aziende nei prossimi mesi per affrontare al meglio questa situazione?

“Oggi è importante avere un solido equilibrio finanziario delle aziende e questo perché tutti gli effetti di natura economica che si sono avuti nei mesi precedenti sono destinati a tradursi in mancanza di liquidità. Le aziende patrimonializzate e con strutture di proprietà, impianti produttivi e immobili, saranno di certo più protette rispetto a quelle che non hanno strutture di proprietà e si troveranno a sostenere dei costi di affitto. Un terzo elemento importante è poi quello di riuscire a distinguere con grande attenzione tra costi utili e costi inutili. Non c’è più la possibilità di avere costi di azienda inutili, serve invece essere lungimiranti ed essere capaci di sostenere, proprio nei momenti di tensione, quegli investimenti che servono a dare delle opportunità in più”.