Dal clima culturale della Pop Art muove lo statunitense Robert Watts (1923-1989) che dopo una prima produzione di opere in stile proto-pop e la partecipazione a mostre di Pop Art con i colleghi Andy Warhol, Claes Oldenburg e Tom Wesselmann, all’inizio degli anni 60 abbandonò il sistema delle gallerie per concentrarsi sull’anti-arte dell’avanguardia newyorkese: il movimento Fluxus. In opposizione all’oggetto d’arte, al feticcio commercializzabile, intoccabile e destinato alla contemplazione, la produzione del network Fluxus (inteso come to flow, “fluire”, “scorrere”) equivaleva a un gigantesco armamentario di readymade, ancora oggetti di derivazione industriale, così com’era stato per la Pop Art, ma destinati a un utilizzo performativo. Il movimento fluxus pose infatti l’accento sull’essenzialità di un’azione artistica destinata ad annullare sia i confini tra l’arte e la non-arte, come era stato per il dadaismo, sia i confini ancora esistenti tra le varie arti. Nel maggio 1963 Robert Watts organizzò, insieme all’artista e chimico George Brecht (1926-2008), la mostra proto-Fluxus Festival Yam. Attraverso la mail art, Watts invitò gli artisti a partecipare e dare vita a una sequenza di eventi, concerti, happening e performance ospitati per un mese a Rutgers, New York City e nella fattoria dell’artista George Segal nel New Jersey: un chiaro rifiuto a inserirsi nei normali circuiti di diffusione estetica (gallerie e musei). Ne derivò un’arte per tutti, votata al divertimento e alla valorizzazione degli aspetti e degli eventi più scontati e banali della vita quotidiana. Così in Casual Event di Robert Watts (1962) un oggetto industriale, il pneumatico, e l’azione di gonfiaggio ad esso connessa, diventano il volano per una performance.
Didascalie foto
- Fluxus Manifesto (1963) – George Maciunas
- Luca Maria Patella, frame dal film SKMP2, Italia, 1968, 16mm, b/n, col. e intonazioni di colore, 30’, produzione Luca Maria Patella
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Gilberto Zorio, Colonna (Column), 1967 cilindro in fibrocemento, 3 camere d’aria / fibro-cement cylinder, 3 inner tire tubes h 300 x Ø 30 x 70 cm / 118 1/8 x 11 13/16 in. (diameter) Castello di Rivoli Museo d’Arte Contemporanea, Rivoli-Torino, 2001 in comodato congiunto con / on joint loan with GAM – Galleria d’Arte Moderna e Contemporanea di Torino da / from Fondazione per l’Arte Moderna e Contemporanea CRT già Collezione / formerly Collection Margherita Stein Foto / Photo Paolo Pellion Courtesy Castello di Rivoli Museo d’Arte Contemporanea, Rivoli-Torino
- Sky Horizons presented at Roberto Chabet's solo exhibition, 'New Works' (or 'For E.H.'), at Luz Gallery from 1 - 20 February 1973; Credits: Roberto Chabet Archive. Courtesy of Roberto Chabet, Nat and Anamie Gutierrez, Asia Art Archive
- Sky Horizons presented at Roberto Chabet's solo exhibition, 'New Works' (or 'For E.H.'), at Luz Gallery from 1 - 20 February 1973; Credits: Roberto Chabet Archive. Courtesy of Roberto Chabet, Nat and Anamie Gutierrez, Asia Art Archive
- Work Kite Traps presented against a dark wall at Roberto Chabet's solo exhibition, 'New Works' (or 'For E.H.'), at Luz Gallery from 1 - 20 February 1973. Hanging in the back is Sky Horizons. Credits: Roberto Chabet Archive. Courtesy of Roberto Chabet, Nat and Anamie Gutierrez, Asia Art Archive
La negazione dell’oggetto artistico è estrema: l’artista descrive in maniera telegrafica un evento elementare che avviene in un contesto quotidiano. L’opera si limita a un Event Card, un biglietto stampato, ma attraverso le istruzioni fornite dall’artista, un gesto banale diventa oggetto di contemplazione.
Come anticipato, negli anni 60 l’accezione tradizionale di opera d’arte lasciò il posto a diversi modi di considerare il fare artistico. In questa trasformazione il ruolo stesso delle gallerie si modificò radicalmente: da luogo-contenitore dove venivano esposte le opere d’arte, le gallerie si imposero come spazi di comunicazione attivati dallo stesso agire degli artisti. Pertanto, non si esponevano più oggetti in senso stretto, ma si realizzavano produzioni, performance e azioni temporanee. Sul finire del 1967 il critico d’arte Germano Celant aveva presentato nelle gallerie private di Genova e di Torino un gruppo di artisti, coniando per loro il termine di Arte Povera. L’aggettivo “povero” si riferiva sia alla volontaria regressione a un grado zero dell’immagine, sia alla scelta delle tecniche e dei materiali adoperati. L’opera era quindi ridotta alla sua materialità, alla semplicità dei suoi elementi base, come la terra, l’acqua, il fuoco, fino all’introduzione di materiali mai impiegati prima: amianto, piombo, catrame, reti, sostanze chimiche, ghiaccio e pneumatici.
Nel novembre 1967 presso la Galleria Sperone, a Torino, l’artista poverista Gilberto Zorio (1944) espose Colonna di Eternit: un cilindro di eternit rizzato in verticale per creare una colonna che non poggiava direttamente sul pavimento, bensì su delle camere d’aria in gomma nera parzialmente gonfiate, tali per cui il sentimento di stabilità insito nella figura era minato alla base. Così la figura eroica della colonna isolata e la solidità del cemento erano minati dalla loro messa in relazione con altre sostanze (in questo caso le camere d’aria) dotate di caratteristiche meccaniche, fisiche e formali opposte. Deciso a contestare il mercato, la cosiddetta arte “ricca”, Zorio elesse a fenomeno artistico le alchimie del mondo contemporaneo.
Gli oggetti selezionati dagli artisti poveri diventano quindi dispositivi plastici ambigui e fluidi, a metà tra ready made e object trouvé, attrezzi-scenici imbevuti di una forte opposizione alla commercializzazione tale per cui gli oggetti si dissolvono in opera-ambiente-happening. È quanto accade nella produzione di un altro esponente dell’Arte Povera, Eliseo Mattiacci (1940-2019), che assieme ai colleghi Jannis Kounellis e Pino Pascali è protagonista di uno dei quattro episodi del film d’artista SKMP2. Girato da Luca Maria Patella (1934-2023) in 16 mm tra aprile e fine luglio 1968 e proiettato per la prima volta il 21 dicembre dello stesso anno in occasione del trasferimento della galleria L’Attico di Fabio Sargentini negli spazi del garage di Via Beccaria a Roma, riprende gli artisti mentre compiono azioni fini a sé stesse, performance, realizzazioni spontanee e messa in scena di loro opere effimere. I titoli di apertura recitano “SKMP2 Kounellis Mattiacci Pascali Patella – Reportage ironico visuale di Patella”. Il primo episodio è dedicato a Mattiacci ed è diviso in tre sotto-episodi (di cui quello di apertura e di chiusura girati ne L’Attico). L’artista è ripreso intento a giocare con grossi copertoni di camion, che sembrano danzare sulle note di Saint-Saens e Bach. Cavalcandoli come fossero una motocicletta o girando per la città dentro le sue sculture di lamiera ondulata zincata (Cilindri Praticabili), alla fine del terzo atto Mattiacci cade a terra sul pavimento della galleria investito a morte dai suoi scherzosi pneumatici.
Completamente diverso è l’utilizzo del pneumatico proposto da Claudio Parmiggiani (1943) a partire dal 1970 quando partecipò a una mostra nella Galleria Civica di Modena, la città dove si è formato. La sala che gli era stata assegnata era un vecchio magazzino e per sgombrarlo iniziò a spostare alcuni oggetti appoggiati al muro: quadri, tele, una scala. Scoprì così che, col tempo, la polvere aveva impresso la loro forma sulla parete che allora appariva come una specie di negativo fotografico. L’opera, intitolata Delocazioni, nasceva da questa rivelazione: il ritiro di qualcosa che non c’è più ma ha lasciato un’impronta. L’opera era proprio quel resto, quell’assenza incarnata in una presenza materiale ma impalpabile come la polvere: per creare le sue Delocazioni, Parmiggiani sostituì la polvere con il fumo e la cenere ottenuti bruciando copertoni. Il pneumatico divenne la materia attraverso cui l’artista filippino Roberto Chabet (1937-2013) rese omaggio all’artista Eva Hesse, scomparsa prematuramente nel 1970, all’interno della mostra New Works o For E.H. presso la Luz Gallery, (Makati City, Philippines, 1-20 febbraio 1973). La maggior parte delle opere di Chabet esposte in New Works comprendeva spesse cornici di compensato bianco o nero con pezzi di gomma recuperati dall’interno dei pneumatici stesi sulle cornici stesse.
La scelta della gomma rifletteva la predilezione di Hesse per i materiali industriali e di uso quotidiano, mentre il modo in cui era disposta richiamava la sensualità insita nelle installazioni della Hesse. Chabet aveva inoltre collocato sul pavimento della galleria delle scatole di compensato nero riempite di pezzi di pneumatici. Non era la prima volta che l’artista filippino ricorreva all’utilizzo di pneumatici: nel maggio 1970 alla Print Gallery di Dayrit, insieme ai colleghi Ray Albano e Boy Perez (The Liwayway Recapping Co.), venne proposta una installazione, durata solo quattro ore, comprendente pneumatici, palloncini neri, specchi, strisce di carta colorata,… Le fotografie che documentano la mostra includono una serie di camere d’aria bianche dipinte che pendono dal soffitto in diverse angolazioni per tutta la Print Gallery. Immagini simili ritornano per una mostra curata da Chabet al Cultural Center of the Philippines nel 1970 e intitolata Illuminations. La mostra era un’indagine sugli effetti della luce, sui materiali illuminati e sulla luce che si muove nel tempo e comprendeva apparecchiature quali proiettori, faretti, luci nere, specchi sospesi, pezzi di alluminio sospesi, gommapiuma e interni di pneumatici verniciati: una miscela di materiali opachi e riflettenti che producevano un senso di instabilità.
La mostra del 1970 alla Print Gallery e Illuminations testimoniano i primi sforzi di Chabet nell’utilizzo di materiali scoperti durante i viaggi negli Stati Uniti e in Europa. In New Works, rispetto alle mostre del 1970, l’interno del pneumatico è stato tagliato e deformato da Chabet per sfruttarne e metterne in mostra le proprietà materiali. I bordi irregolari e le dimensioni imprecise delle varie strisce di gomma sembrano alludere agli effetti della distruzione, come i pezzi di gomma nera lasciati sulla strada dopo lo scoppio di un pneumatico.